Ditelo a Nietzsche che Dioniso era brindisino
- di Alessandra Aiello
- 29 giu 2018
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 8 apr 2023

Il legame che sussiste tra una città e i suoi vini è un po’ come quello che essa instaura con i suoi abitanti: atavico, primitivo, trascendentale. Questo nesso nasce necessariamente dal basso, radicato a livello ancestrale nella terra che lo produce e protende le sue fronde lontano da lei, nel continuo desiderio di voler diventare altro, come a volerle sfuggire senza mai riuscirci. La mia dimensione etilica è stata pressoché latente fino ai ventisette anni. Si contava qualche bicchiere di birra per digerire la pizza e, al massimo, un calice di prosecco per festeggiare la mia laurea. Per quel che mi riguardava, il Primitivo di Manduria sarebbe potuto essere un ragazzino particolarmente screanzato e il Brindisi Rosso Riserva un calciatore non abbastanza dotato. Il mio trasferimento a Venezia fu quasi contestuale all'iscrizione all'anonima alcolisti ma questa è un'altra storia. Comunque, se il ricordo del mio primo spritz veneziano si è perso tra un cicchetto con l’acciuga e un infarto per il conto ricevuto, il primo bicchiere di vino rosso nella mia Città mi rimane incastonato nella mente, vivido come il suo colore. Era uno dei giorni antecedenti alla vigilia di Natale e Via Conserva era stata eletta, non a caso, come luogo di ritrovo per un aperitivo con scambio di auguri tra noi ex compagni del liceo. A differenza del passato, avevamo scelto di non affollarci su uno dei gradini degli esercizi commerciali di quella via perché ormai ci eravamo evoluti ma dentro al C'est la Vie, un’elegante enoteca che ai nostri tempi non esisteva. Io e Gabriella fummo le prime ad arrivare e da subito ci interrogammo su questo repentino cambio di scenario, su quanto questo contesto, sfavillante e ricercato, fosse così diverso dai luoghi in cui ci eravamo ritrovati per tanto tempo. Anni addietro, quando andava bene capitava che ci dividessimo un panino e una coca-cola in quattro al Quetzal ma c’erano anche sere in cui saremmo state avvistate sui gradini di Via Conserva o appollaiate su uno dei nostri motorini spenti a sistemarci spasmodicamente rossetto e capelli con una mano mentre con l’altra reggevamo un sacchetto di patatine. In quel momento di chiacchiere e di ricordi l’eleganza del locale, la simmetria dei suoi arredi e la razionalità nella disposizione dei calici invocavano uno spirito Apollineo al quale non seppi resistere. Per non spezzare questo equilibrio mi spinsi ad ordinare un vino rosso le cui caratteristiche decantate verbalmente dal sommelier mi avevano incantata. Il bicchiere di vino sciabordava nel calice e mi chiedeva di essere apprezzato nel colore e nel gusto. Sfortunatamente fui incapace di decifrare il suo raffinato richiamo perché ero troppo interessata al racconto di Gabriella e nella mia ottusa sordità tracannai lui e qualche altro suo fratello piuttosto in fretta perché dovevo essere a casa di mia zia in tempo per la cena. Forse percepì impreparazione e disinteresse verso di lui oppure intuì che avrei preferito uno spriz: fatto sta che, con gli strumenti a sua disposizione, me la fece pagare. Arrivarono anche gli altri nostri compagni di classe, la maggior parte dei quali era sparsa sul suolo nord-italico e, come me, rientrava a casa per il periodo natalizio. Per qualche minuto ognuno di noi si adeguò all’atmosfera Apollinea del locale, mostrando il proprio lato razionale, armonico e dotato di senso. Si parlò della civiltà delle metropoli padane, di percorsi post-universitari e di ghiotte opportunità lavorative. Tuttavia, quello scalmanato gruppo di ragazzi incarnava perfettamente la rappresentazione di quel preciso momento in cui la vita prendeva a fluire velocemente e bisognava assecondarla col suo stesso ardore per non esserne disarcionati al primo cambio di scenario. Il Dionisiaco che c’era in noi si svelò per chiarire alla rinomata enoteca e a tutta la città che eravamo giovani, arrembanti, con i percorsi universitari conclusi da poco e con una finestra di ambizioni dalla quale guardavamo il mondo con una scalpitante, ingorda voglia di assaggiarlo. Esattamente come facemmo, nel giro di un istante, con i bicchieri di vino rosso su cui, qualche secondo prima, avevamo indugiato con fare da intenditori. Ogni residuo Apollineo scomparve definitivamente quando, per rispetto alle tradizioni studentesche e alla nostra sottaciuta voglia di tornare indietro, cominciarono a volare prima le olive e i tarallini e poi le loro ciotole. Quello sarebbe stato il momento Dionisiaco per eccellenza, quello che tutti avremmo ricordato all’atto di risalire in aereo per tornare alla familiare estraneità delle nostre città d’adozione. Avremmo avuto tutti lo stesso sguardo da cane bastonato nel salutare i nostri genitori quando solo qualche giorno prima eravamo apparsi trionfali all’uscita del gate, con il sorriso tracotante di chi si appresta a festeggiare il Natale sentendosi anche un po’ regalo. Anche se la casa dei miei zii distava cinque minuti a piedi da Via Conserva, riuscii ad arrivare in Via San Benedetto solo grazie ad un passaggio in macchina, completamente ubriaca. C'era una tavolata di quindici persone che mi aspettava, dieci delle quali mi avrebbero ammazzata se solo si fossero accorti della mia euforia etilica. Nei pressi del portone realizzai di aver bisogno di un complice, persona individuata prontamente in mia cugina Serena che venne ad aprirmi la porta e alla quale confessai subito la mia condizione. Serena si fece una sghignazzata, mi disse di continuare a sorridere e mi guidò verso il mio posto a tavola, facendo attenzione a farmi evitare un frontale con l’albero di Natale. Mio padre e zio Mario, irrequieti, erano già seduti a tavola con le posate in mano da un pezzo. Zia Tetta era in cucina a terminare i preparativi con mia madre e le altre mie cugine Michela e Gina. Per tutta la durata della cena Serena scansò per me le domande particolarmente complicate che mi rivolgevano i parenti, quelle che andavano oltre “passami il sale” per intenderci, e anche qualche bicchiere di rosso che, con mio sommo rammarico, prendeva sempre la strada di qualche altro commensale. Quando si accorsero del mio mancato triplo salto carpiato per accaparrarmi la giusta quantità delle famose polpette di Zia Tetta i miei parenti cominciarono a preoccuparsi. Serena mi servì le polpette e fece riferimento al fatto che potessi essere stanca. Da lì, Zio Mario e zia Tetta attaccarono una celebrazione di dieci minuti su quanto fossi brava e coraggiosa nel portare avanti da sola tutte le mie attività a Venezia. In quel lasso di tempo che mi parve eterno, il vino rosso del C'est La Vie a cui non avevo reso il giusto tributo volteggiava in un valzer dionisiaco e giocava a presentarmi davanti ora la faccia orgogliosa di mia madre, ora quella convinta di Zio Mario, ora quella canzonatoria di Serena che a bassa voce mi faceva notare quanto facilmente avrebbe potuto sbriciolare quel castello di menzogne. E mentre aspettavo rassegnata che lo stordimento passasse, mi tornò in mente un racconto mitologico che avevo letto al liceo in cui Bacco eradicò una giovane vite e, per portarla con sé, la mise in un osso di uccello. Essendo questa cresciuta, la ripose prima in un osso di leone e successivamente nel cranio di un asino. Il tralcio poi crebbe nella terra dando vita a grappoli d’uva dai quali si ottenne il vino. Gli uomini, bevendolo, si sentirono dapprima leggeri come uccelli, poi forti come leoni ed infine, eccedendo nel bere, simili agli asini. Zio Mario, chiaramente nella fase del leone, volse il calice al cielo e disse “A nipotuma” e io annuii con testa asinina sollevando il mio con l’aranciata, unica bevanda che Serena aveva permesso che transitasse nelle mie vicinanze, giurando a me stessa che la prossima volta avrei fatto il giro per Corso Roma e sarei risalita da Corso Garibaldi pur di non passare più da Via Conserva. Brindisini, che questa breve premessa vi giunga come un invito: rendete omaggio anche per me alla nostra città e al nome che porta, siate più consapevoli della nostra ricchezza enogastronomica, documentatevi, sciati abbasciu alla Marina e… Prosit! E stipatimi puru nu picca di vinu.
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