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Ci, Ce e la miracolosa vitamina H

  • di Alessandra Aiello
  • 2 mar 2018
  • Tempo di lettura: 10 min

Aggiornamento: 8 apr 2023

Cara Maestra Maria Teresa,

oppure, Signorina, come ti piaceva che ti chiamassimo.

Qualche settimana fa avrei voluto comporre il tuo numero di telefono, la cui sequenza viene conservata intatta nel mio hardware, per raccontarti di come sto cercando di ricalcare degnamente le tue orme.

Probabilmente avremmo riso insieme della scuola moderna: ti avrei aggiornata sulle ultime mode quali lo shampoo preventivo per i pidocchi che puzza come quello vecchio, costa il doppio ed è così biologicamente rispettoso della natura che i parassiti saltano per la contentezza e si riproducono meglio di prima. Quindi no, Maestra cara, il problema dei pidocchi nelle scuole non è stato ancora definitivamente debellato ma ci siamo vicini.

Ti avrei raccontato che torno a casa con una valanga di bigliettini scritti dai miei bimbi, tacendo sui quintali di documenti sulla valutazione delle competenze che mi trascino da mesi e che mi pesano nella borsa e sulla coscienza per non essere stati ancora letti, giusto perché ricordo che avevi molto rispetto per la carta e sei stata tu ad insegnarmi a non sprecarla.

Ti avrei dato una notizia shock: dalle nostre aule stanno scomparendo le lavagne. Proprio così Maestra, basta con quel fastidioso pulviscolo che ti faceva tossire e ti imbiancava i vestiti. Basta con la contrattazione clandestina di gomme colorate con cui, tra bambini, cercavamo di barattare una briciola di gessetto che avevamo trovato per terra, dono di rara preziosità. Ora ci sono le LIM, lavagne elettroniche con connessione ad internet e YouTube: una scia di pixel ha soppiantato la polvere del gesso e questi gioielli tecnologici sono bellissimi, pratici, veloci e semplici da usare, soprattutto dai bambini. Anzi, delle volte è molto divertente vedere come si impegnino tutti e venticinque insieme a strillarmi indicazioni su come passare dalla funzione penna alla funzione gomma o viceversa. Così divertente che un giorno non lontano staccherò la LIM della quarta B con queste braccia e la lancerò giù per le scale, così che una lavagna di ardesia me la dovranno montare per forza.

Comunque, tralasciando il fatto che per certi aspetti ne sanno più di me e che quando accade non gli basta farmelo presente a voce normale ma in modalità soprano, i miei bambini sono uno spasso. La scorsa settimana, durante la ricreazione della mattina in una prima elementare, avevo intravisto un assembramento, improvviso quanto sospetto, intorno al termosifone. Sono corsa lì a sventare l’eventuale traffico di marjuana o di merendine rubate ma, giunta sul posto, non ho trovato alcuna prova evidente a loro carico, ad eccezione di una serie di sguardi pseudo innocenti che cercavano di distrarmi con un violento sbattere di ciglia. Improvvisamente, la memoria mi ha teletrasportata nella mia classe di trentacinque anni fa e mi sono vista parte del gruppetto clandestino intorno al calorifero, in estasi davanti al coraggio di David Iaia che si contendeva con Andrea Tortora il record di permanenza della mano sul termosifone caldo.

Se non sbaglio vinse David.

<<Allora>> ho tuonato incrociando le braccia <<chi vince?>>

Le ciglia si sono bloccate tutte per un paio di secondi.

<<Yuri>>

Ci avrei giurato.

Altre congetture mi hanno spinta a formulare la domanda successiva: <<Chi ha avvitato la settimana scorsa il rubinetto del termosifone? Lo sapete che siamo rimasti due giorni al freddo per questo?>>. Per non parlare del cazziatone che ci ha fatto il tecnico quanto è venuto a sistemare il guasto che guasto non era.

Un’altra folata siberiana proviene dalle ciglia in sbattimento: non riuscirò ad estorcere altra confessione a questi piccoli delinquenti.

Ma torniamo alla nostra telefonata. Avrei glissato su una mirabile evoluzione tecnologica della scuola chiamata scrutini on line che riduce e semplifica notevolmente il lavoro di valutazione e di registrazione dei voti, che ci permette di essere più vicini alle famiglie e più chiari nell’espressione dei giudizi; una meraviglia che ci farà risparmiare molto tempo in futuro, sempre che si capisca come concretizzare il salvataggio dei vari file perché ad ogni scrutinio ci tocca rimanere a scuola fino alle 20.30.

Poi ti avrei riferito di quando, dopo una lunga giornata di lezione, mi sono trovata in bagno alle quattro del pomeriggio a tentare di rinfrescarmi in prospettiva di una riunione di altre due ore. Mentre ero davanti allo specchio a cercare di ridare aria con un po’ di rossetto ad un viso che avrebbe necessitato di un ferro da stiro, ho sentito la porta aprirsi alle mie spalle e una voce sconosciuta mi ha sussurrato con aria di complicità: <<ti stai pittacchiando?>>

No, Maestra, non avevo bevuto l’alcool che la bidella usa per pulire i vetri, ti giuro che ha detto proprio così. E’ stato come se da quella porta della scuola primaria di Favaro Veneto fosse entrata una freschissima brezza di orecchiette, tarallini, mare e sole salentini. In effetti, la collega, da sotto alla sua montagna di riccioli rossi, mi ha rivelato la sua provenienza pugliese. Abbiamo riso rumorosamente e ci siamo abbracciate in bagno, roba che se in quel momento fosse entrato qualcuno, questo qualcuno avrebbe potuto scegliere tra un ventaglio molto ampio di pregiudizi. Comunque sono uscita dal bagno fresca e zompettante come fossi appena emersa da una piscina termale di Abano.

Affascinante il modo in cui funziona la memoria umana, non trovi? Ti fa emergere i ricordi confezionati in pillole quando meno te l’aspetti. Mentre tornavo a casa in tram, quella sera, uno di questi ricordi mi si è spacchettato dalla mente rivelandomi che non era mica la prima volta che abbracciavo una sconosciuta a causa della nostra comune provenienza.

Quella volta ero a New York, a passeggio per Manhattan, alla ricerca di qualcosa che mi facesse sentire un po’ Carrie Bradshaw. In mancanza dell’autorevolezza necessaria per fermare un taxi senza sembrare una disperata in cerca di un’ambulanza o di seicento miseri dollari per acquistare un paio di Manolo Blahnik, mi sono fermata davanti ad un chiosco di Prezel. Ne ho chiesto uno col migliore accento che avessi e, per tutta risposta, la signora che mi stava servendo mi chiese da dove venissi. Delusa per non esserle sembrata americana le ho risposto <<Italy>> e lei, lanciando le braccia al cielo e facendo il giro del bancone per correre ad abbracciarmi, si è messa ad urlare <<Io sono grecaaaaa>>.

Beh, praticamente dirimpettaie. L’amica che mi aveva trascinato a New York e con cui mi sarei divisa il Prezel veniva da Mestre ma non si è assolutamente offesa per essere stata lasciata fuori. La geopolitica in quel momento si stava ridistribuendo secondo nuove rotte di senso ed era giusto riconoscere la sua mediterraneità e coinvolgere anche lei nell’abbraccio.

Come vedi, ho ancora il vizio di perdermi nei mille rivoli dei miei pensieri, facendo prendere altrettante direzioni al discorso, errore che tante volte hai cercato di correggermi.

In realtà, infatti, ti avrei chiamata per un motivo ben preciso: volevo chiederti di raccontarmi di nuovo quella storia, che tanto mi piaceva, sugli uccellini forti e quelli deboli. Ero convinta che i dettagli di quella favoletta, insieme a tutti i ricordi della scuola elementare, sarebbero rimasti intatti nella mia memoria per sempre, a fondamenta e a protezione del mio futuro. E invece mi scopro tristemente ad osservare che qualcuno di questi pacchettini ha preso un po’ di umidità, e qualcun altro, all’apertura, rivela un contenuto che ha perso nitidezza.

Boccone amaro quello che mi tocca ingoiare periodicamente quando, scartando fiduciosa un ricordo, mi accorgo di averne irrimediabilmente danneggiato i dettagli. E’ così che mi sono sentita quanto, la scorsa settimana, volevo riferire ai bambini di prima elementare la storia che mi avevi raccontato trentacinque anni fa. Ho aperto la bocca per raccontare loro della potenza della letterina H ma, di quel ricordo, mi appariva distintamente solo la memoria della mia classe, dei miei compagni, delle trecce di Silvana Mingolla e della cartella di Barbie di Margherita Ciaccia vicina al mio banco, oggetto segreto del mio desiderio fino in quinta elementare. La cartella di Barbie, non Margherita.

Mi sono sforzata di ricordare ma non c’era verso. Scartavo affannosamente tutti i file archiviati nella directory “Scuola Elementare” ma dì lì ne sono uscite feste di compleanno alle quali tu eri richiesta a gran voce ma non venivi mai e la gita scolastica ai laghi Alimini. Ha fatto capolino l’emozione che provai il giorno in cui Alessandro Fornaro mi regalò due pennarelli fosforescenti: era terrore. Terrore che, per quanto erano belli, li rivolesse indietro.

Pensa, sono riemerse persino le copertine di lana fatte all’uncinetto che hai regalato a tutti e ventidue i tuoi alunni in quinta elementare, coperte su cui avevi iniziato a lavorare a partire dalla terza.

I bambini di prima mi guardavano impazienti di ascoltare la storia ed io ero lì, davanti a loro, ad annaspare confusa nella marea di pacchettini che cercavo di scartare con la speranza di trovarci la tua storia, ma niente. Ne è venuta fuori la faccia disperata che Piero Lisi indossava diligentemente quando dovevamo ballare il Valzer dei Fiori e persino la performance di Antonio Ravone che un giorno, dietro tua richiesta, in piena concentrazione coniugò l’indicativo presente del verbo avere ripetendo per sei volte di seguito “io ho un libro”. Siccome rideva meno della metà della classe, ne hai saggiamente dedotto che del verbo avere non avevamo capito niente ed hai ricominciato a spiegarcelo.

La consapevolezza di non ricordare i particolari della storia è stata davvero amara, quasi come il momento in cui Alessandro Stozzo mi disse di aver scoperto Drago Nuocher, il regalo che aveva chiesto a Babbo Natale, nell’armadio dei suoi genitori qualche giorno prima della vigilia. In entrambi i casi, proprio non mi capacitavo di questa perdita di un pezzo della mia fanciullezza.

E allora, in queste circostanze, l’unica alternativa possibile volge alla ricostruzione. No Maestra, la soluzione del botulino è stata (temporaneamente) messa da parte. Ho preferito reinventare il mio ricordo, dove necessario, per mettere nero su bianco e preservarlo così dagli attacchi del tempo. Chi mi dice che, tra i bambini che ascolteranno questa storia, non si nasconda un futuro maestro che continuerà a raccontarla?

Cara Maestra, spero di aver messo tutte le doppie al loro posto anche se sai che non sono mai state il mio forte. Probabilmente già sospettavo che, un giorno o l’altro, mi sarei trasferita in Veneto per cui immaginavo di poterne fare a meno. E sappi che la memoria mi ha fatto lo scherzo di nascondere i dettagli della storia che ci raccontasti ma mi ha graziato lasciandomi il profumo del tuo rossetto e il suono della tua voce quando tu, la nostra Signorina, ci dicevi che la noi eravamo la tua famiglia.

C’era una volta, tra le fronde di una grossa quercia, una coppia di passerotti che decise proprio lì di metter su famiglia.

Dopo un’accurata ricerca, i due uccellini scelsero il ramo più comodo dell’albero, quello con la vista più bella e che sembrava fatto apposta per spiccare il volo verso il bosco. Quell’albero, inoltre, era situato vicino alla fermata della metropolitana per la città e comodo per la scuola del paese. Proprio lì il passerotto vi costruì un bel nido scegliendo i rametti più elastici per rivestire gli esterni e riservando le foglie più tenere per gli interni. Poi, passò a sistemare con cura la parabola per non perdersi le partite su Sky e l’antenna per la connessione wireless.

La giovane uccellina, di rimando, cominciò subito ad arredarlo e, in men che non si dica, c’erano già cinque belle uova da covare: un bell’impegno per la nuova famigliola, senza contare le fatture dell’IKEA e della Maison Du Mond.

Dopo qualche settimana gli ovetti cominciarono a scricchiolare, segno che i piccoli erano pronti per nascere.

Dal primo uovo che si ruppe venne fuori un bell’uccellino dagli occhi lucenti che, con voce stentorea, cominciò a cinguettare “CA, CA, CA”!

Mamma Uccellina e Papà Uccellino, al colmo dell’emozione, decisero di chiamare CA il loro primogenito.

Dopo qualche minuto, anche il secondo uovo si schiuse, presentando al mondo un esserino che iniziò a cantare a piena voce “CO, CO, CO”!!! Anche questa volta, la scelta del nome non fu così difficile, tant’è che il nuovo arrivato venne subito ribattezzato CO.

Mamma Uccellina e Papà Uccellino, pieni di orgoglio, non si stancavano di ascoltare i loro piccoli pigolare e già si esercitavano a cantare l’inno della loro squadra preferita per quando sarebbero andati allo stadio. Quand’ecco che anche il terzo uovo cominciò a dar segni di impazienza: infatti, di lì a poco ne uscì un terzo uccellino che, con voce ancora più vibrante dei suoi due fratelli, riempì il bosco con i suoi “CU, CU, CU”!

Indovinate un po’ come decisero di chiamare quest’uccellino? Bravi! Si chiamò proprio CU.

Mamma Uccellina già pensava che avrebbero avuto la famiglia più rumorosa del bosco ma c’erano ancora altre due uova da covare, due uova che, evidentemente, avevano bisogno di più tempo per nascere. In effetti, la famiglia dei passerotti dovette attendere ancora qualche giorno per conoscere gli ultimi due membri della famiglia ma anche per loro arrivò il momento della schiusa. Mamma Uccellina pregava che fossero femminucce e papà Uccellino sperava che fossero milanisti. L’uccellino che ne venne fuori, però, anziché salutare il mondo con voce vigorosa come avevano fatto i suoi fratelli, pigolò con voce flebile: “ci, ci, ci”. E anche l’uccellino nato dal quinto ovetto, ancora più piccolo e debole, si presentò alla famiglia con un timidissimo “ce, ce, ce”.

Mamma Uccellina e papà Uccellino, che avevano chiamato questi ultimi due scriccioli Ci e Ce, erano molto preoccupati per la loro salute perché CA, CO e CU erano soliti stordirli con i loro canti potenti mentre i cinguettii di Ci e Ce quasi non si sentivano. Inoltre, CA, CO e CU amavano giocare ed esplorare i rami in prossimità del nido e già non vedevano l’ora di imparare a volare, di andare a curiosare nel parchetto, attirati dal vociare dei bambini che giocavano e di andare in città per comprare qualche nuovo gioco della PS4.

I due piccoli Ci e Ce, invece, se ne stavano sempre al riparo nel nido e non sembravano per nulla interessati ad altro che non fosse l’ala della loro mamma o le fronde accoglienti dell’albero.

Mamma e Papà decisero dunque di portarli dal dottor Gufo, un esperto luminare di fama interboschiva che, si narrava, avesse fatto miracoli con un pesciolino che non voleva saperne di nuotare e un pipistrello con una folle paura del buio.

Lo studio del Dottor Gufo era nel sottobosco, all’interno di un grosso cespuglio di more. I poveri uccellini, durante il tragitto per raggiungere il Professore, avevano gli occhi lucidi dall’emozione e il becco sigillato dalla paura, alla vista di questi posti sconosciuti.

Al termine della lunga visita ai due uccellini il Dottor Gufo espresse la sua diagnosi: non c’era nulla di preoccupante in Ci e Ce. I due fratellini non avevano alcuna grave malattia: avrebbero solo avuto bisogno di una buona dose di miracolosa vitamina H. Con una pillolina al giorno di questa vitamina, Ci e Ce avrebbero presto iniziato a cantare vigorosamente e a volare senza paura come i loro fratelli CA, CO e CU.

Appena rientrati al nido, Mamma Uccellina e Papà Uccellino diedero subito una pasticca di vitamina H ai loro piccoli, e così fecero anche la mattina successiva e quella dopo ancora. E continuarono fino a quando, un bel giorno, furono svegliati dal loro canto che, intenso e vibrante, echeggiava così:

“CHI, CHI, CHI”!

“CHE, CHE, CHE”!

Finalmente anche i due uccellini deboli avevano trovato la forza, grazie alla vitamina H, di cantare con voce potente e il coraggio di provare a volare. Per prima cosa, andarono subito al parco giochi a vedere i bambini che giocavano, poi si diressero ad esplorare la metro che, con tutto quel rumore, adesso incuriosiva e non faceva più paura. Infine, insieme a CA, CO e CU, sotto la direzione di Papà Uccellino, si esercitavano ogni giorno nel cinguettio dell’inno della squadra del cuore, in previsione del derby che si sarebbe stato di lì a poco nello stadio cittadino.

Bisogna dire che, ogni tanto, Ci e Ce dimenticavano di prendere la vitamina H, ricominciando di fatto a pigolare debolmente “ci” e “ce”. Mamma Uccellina, allora, decise di dare a tutti i suoi cuccioli della vitamina M, importantissima per la Memoria, in modo che non dimenticassero di prendere la vitamina H e che tutti si allenassero al ricordo. Ne diede anche una robusta dose a Papà Uccellino che, a parte le date delle partite e i risultati di campionato, era solito dimenticarsi di tutto il resto.


 
 
 

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